Testimonianza di Pietro P.

Riportiamo qui di seguito un passo dell’autobiografia di Pasquale Maulini, raccolta da Edio Vallini e pubblicata nel suo volume “Operai del Nord”, edito da Laterza nel 1957. Maulini, nascosto sotto lo pseudonimo di Pietro P., racconta la sua esperienza di partigiano, poi di fondatore dei Convitti Scuola della Rinascita di Milano e di Torino. Egli diventerà successivamente sindaco della sua città, Omegna, tanto apprezzato da esser riconfermato per cinque mandati, ed anche deputato al Parlamento italiano. Una storia che ci sembra un esempio di come l’azione dei Convitti Rinascita abbia contribuito al progresso culturale e civile del popolo italiano.

In famiglia eravamo tutti mobilitati per svolgere qualche attività partigiana; io che ho cominciato a fare la staffetta, facevo con grande religiosità questo lavoro di collegamento. E’ strano parlare di religiosità per un ragazzo che in quel momento non aveva più la fede di quando era bambino. Ho cominciato ad occuparmi di politica e di attività partigiana per la fiducia che avevo in Pippo; per me i comunisti erano lui, poi mio padre. Il mio primo sentimento politico è stato dunque un sentimento affettivo. Pensavo: “Questi sono i comunisti, la gente che è stata in galera, la gente che hanno mandato al confino, e noi non ne sapevamo niente e quando ci parlavano di loro ci dicevano che erano dei banditi e degli assassini”.

Un gruppo di convittori di Omegna. Accovacciati, in basse, Pasquale Maulini e Serafino Soressi.
Un gruppo di convittori di Omegna. Accovacciati, in basso, Pasquale Maulini e Serafino Soressi.

In quei tempi casa mia è diventata il quartiere generale della “Redi”, lo stesso Redi ci ha dormito due giorni prima che lo uccidessero a Megolo; e ci sono passati un po’ tutti i principali capi. A qualsiasi ora del giorno e della notte potevano arrivare a bruciarci la casa, in quelle condizioni la coscienza viene anche senza preparazione politica. Allora avrei voluto leggere e studiare ma era faticoso ricominciare senza preparazione, intanto partecipavo a qualche piccola azione di tipo strategico come per esempio l’abbattimento dei pali della forza elettrica che abbiamo fatto nel febbraio del ’44. Siccome io a militare non andavo, ero stato fatto rivedibile per il torace insufficiente, ed erano i momenti che partivano i soldati della “Monterosa”, cercavo di convincerli a non andare sotto i tedeschi ma di raggiungere invece i partigiani in montagna, e in questo modo ne avrò mandato su una ventina.

Ma dopo tutta quella attività diventava pericoloso restare in paese, mia madre mi gridava di andar su, e così nel giugno del ’44 insieme ad alcuni amici siamo partiti per la montagna. Abbiamo fatto il nostro esodo un po’ alla bersagliera, con fiaschi di vino, come se fosse una gran festa. Io volevo portare i miei amici su con me, tra i garibaldini, e che non andassero a ingrossare le file di altre formazioni partigiane.ad assistere all’esplosione.

Beltrami era un uomo onesto, era di idee socialistoidi perché aveva un nome da difendere, però nella sua brigata non c’era certo la disciplina che c’era tra i comunisti. Quando sono arrivato alla “Redi” mi hanno dato subito l’incarico di discutere e di parlare del partito agli altri compagni; ione sapevo poco, ma ero il più preparato.

Dopo un mese e mezzo che ero in montagna mi hanno rimandato a casa, per fare in grande il lavoro di togliere i pali per l’energia che andava a Milano. Era la linea centrale della Edison. Sono sceso con due specialisti paracadutati dagli inglesi, due genieri. Siamo rimasti chiusi a casa mia per cinque o sei giorni, a preparare la dinamite coi detonatori. Abbiamo fatto tutto il lavoro di notte, disponendo delle matite a orologeria nei punti principali, e siamo tornati su, ad assistere all’esplosione. L’operazione è riuscita benissimo, e nessuno per fortuna ha sospettato di noi; anzi, il giorno dopo, un tecnico che era venuto a montare il cantiere di riparazione ha chiesto a mio padre se voleva fare la guardia alle linee.

Poi ci siamo spostati nell’Ossola, dove ho incontrato un altro compagno che doveva avere molta influenza nella mia vita, un intellettuale, un po’ matto. Insieme con lui ho conosciuto Nicola Raimondi, che per primo mi ha parlato del giornale murale da fare in brigata e di tutti gli altri argomenti di carattere, diciamo così, culturale da inserire nel lavoro politico. Per me essi rappresentavano un po’ l’intellettualità del partito, e per il mese che l’Ossola è stata liberata abbiamo fatto scuola di partito.

Nel periodo che c’è stata la Repubblica dell’Ossola io non potevo fare a meno di pensare alla confusione che ci sarebbe stata il giorno della Liberazione. Vedevo sin d’allora gente che approfittava inutilmente della sua posizione, che si metteva i galloni sulle divise borghese, macchine che giravano senza che sapessero guidarle, prelievi non autorizzati, partigiani che si facevano belli con le ragazze. Poi caduta la Repubblica ossolana e iniziato il rastrellamento tedesco, noi ci siamo difesi ma non avevamo armi e munizioni a sufficienza; gli inglesi e gli americani facevano tante promesse ma davano pochissimi aiuti, così c’è stato il fugone in Svizzera. Mi sono trovato nello stesso campo di concentramento con Ferruccio e Giansiro Ferrata, e lì abbiamo svolto uno studio organizzato dall’ottobre del ’44 al marzo. Finalmente sono stato incluso nei primi trenta che uscivano ufficialmente dalla Svizzera, le autorità svizzere dopo averci liberato hanno avvisato i tedeschi del nostro passaggio, fortunatamente non ci hanno preso ma abbiamo dovuto correre attraverso i monti fino a casa. Gli amici svizzeri quando eravamo nei campi ci hanno trattato da delinquenti perché eravamo “rossi”. Come sono arrivato a casa sono tornato a fare il partigiano sino al 25 aprile.

Alla Liberazione abbiamo cominciato a discutere sulla necessità di formare una scuola partigiana. Io avevo ricominciato subito a lavorare in fabbrica, ci sono rimasto tre settimane ma poi hanno cominciato a chiamarmi a Milano e sono andato ad Affori dove per nottate intere abbiamo discusso sulla possibilità di formare un Convitto partigiani; abbiamo fondato la prima scuola in via Conservatorio, alcuni di noi erano operai. Intanto io facevo le medie e con la quinta elementare e senza aver quasi mai studiato facevo i più grossolani errori.

Da via Conservatorio, poiché gli iscritti erano diventati moltissimi, abbiamo dovuto trasferirci in un’altra sede. Non sapendo da che parte andare, abbiamo fatto occupare da Greppi, che allora era il sindaco di Milano, un postribolo di Viale Monza che è diventato il nostro dormitorio. Quante volte abbiamo fatto a piedi dal centro di Milano al dormitorio perché ci fermavamo a discutere di politica e di cultura sino a quando non c’erano più tram.

Da Milano sono passato a Torino nel Comitato direttivo del Convitto partigiani di là: ero piemontese e dovevo portare la mia esperienza in quella città. A Torino ho cambiato di studio; anche se ero indicato per il classico, per esigenze di famiglia non potevo pensare di arrivare ad una laurea ed allora mi conveniva più tentare di fare l’Istituto tecnico, ma purtroppo non ho potuto diplomarmi perché a un certo punto il Ministero dell’Istruzione ha messo il veto ai corsi accelerati per tecnici. Ad ogni modo questo studio mi è servito per diventare più uomo, a capire come fosse grande il mondo e come fossi ignorante e quanto è necessario lo studio. Dicono che sbagliando si impara e se questo è vero ho imparato moltissimo con i problemi che avevo da affrontare al Convitto. Dovevo perfino controllare i professori nell’ambiente didattico e pedagogico che si era formato in quel tipo di scuola particolare. Ma nel ’47 tra le esigenze direttive del Convitto che mi portavano via molto tempo e lo studio intenso cui mi ero sottoposto per riuscire a prendere il diploma, mi avevano talmente spossato che ho preso un forte esaurimento nervoso e sono stato obbligato a tornare a casa. Il presidente della ditta mi ha mandato a chiamare perché sapeva degli ottimi voti che avevo preso a scuola e mi ha proposto di studiare al loro istituto, pagato dalla ditta e a metà stipendio da dare in casa. Era una tentazione forte; gli ho chiesto due giorni di tempo per decidere e poi gli ho detto di no, per non diventare una creatura della ditta. Ora a distanza di anni e molto più maturo, riconosco che quegli scrupoli politici erano esagerati, era un eroismo inutile perché io avrei potuto studiare e lavorare per la mia idea.

Allora mi ha detto che mi avrebbe fatto entrare come assistente in ditta ma che non c’era il posto libero; il posto non è venuto ancora, io sono tornato al vecchio mestiere e quando ci sono state le elezioni per la Commissione interna sono stato eletto.