I prigionieri sovietici nel lager di Viale Corsica

 

Una testimonianza di Edio Vallini, allora tredicenne, su un episodio poco noto della storia milanese degli anni di guerra: il lager dove erano detenuti dei soldati sovietici, sotto sorveglianza della Wehrmacht, e gli sforzi degli antifascisti milanesi per alleviare le loro sofferenze. Nella grande catena di solidarietà del “Soccorso rosso”, espressione di un antifascismo ampiamente diffuso negli strati popolari, anche il giovanissimo Edio svolse con coraggio il suo compito. Ma la testimonianza è eloquente anche per dimostrare l’alta tensione morale che animava l’antifascismo.

A Milano, se dal centro città ci si dirige verso est, in periferia, una parte dell’arteria prende il nome di viale Corsica; sulla destra, prima del ponte della ferrovia e del grande viale che porta all’aeroporto di Linate, si erge oggi un edificio di color rosso, sede di una scuola media.

I miei ricordi ritornano agli anni 1942/’43, prima che il Gran Consiglio del Fascismo decretasse la caduta del governo Mussolini. L’ Italia era in guerra, alleata alla Germania di Hitler. In quel fazzoletto di terra, allora non edificata, al confine della città, i tedeschi avevano creato un campo di concentramento. Piccolo ma dotato di ogni attrezzatura per recludere. Passando per il viale si potevano scorgere dietro i reticolati le baracche, i prigionieri e i soldati della Wehrmacht di sentinella.

Non so come, noi che abitavamo nella zona ma piuttosto lontani, si venne a sapere che i detenuti di quel campo di concentramento erano militari dell’Armata Rossa, le cui pessime condizioni di vita erano facilmente intuibili. Offrire aiuto ai “soldati russi” divenne, quindi, per gli antifascisti comunisti non solo un gesto di solidarietà umana ma un inderogabile dovere. Mia madre si diede un gran da fare per raccogliere cibo, guanti, sciarpe e ogni cosa che servisse a rendere meno dura la detenzione dei “compagni sovietici”. Ma quanto era stato raccolto bisognava recapitarlo, e questo incarico lo assunse la compagna Marina Pagani che abitava nelle case popolari di via Carlo Forlanini 21, un piano sopra il nostro; assistente alla bisogna ero io che avevo tredici anni.
Via Carlo Forlanini non era così vicina a viale Corsica e la sera bisognava uscire da casa calcolando il tempo per tornarvi prima del coprifuoco. Non ricordo come Marina si potesse intendere con i soldati russi, né so cosa dicesse loro quando si avvicinava ai reticolati. Ricordo però che si intese benissimo e la parola che la sentivo più usare era: “tovarisc”.

Ricordo anche i loro gesti che ci avvisavano se vi erano le condizioni per effettuare la consegna. Consegna che avveniva in questo modo: mentre Marina, giovane donna, sul ciglio del fosso che circondava il recinto di filo spinato richiamava l’attenzione su di sé, io scendevo nell’alveo del canale e percorrendo lo scarico a cielo aperto del liquame delle baracche, magro com’ero, superavo il reticolato e consegnavo il pacco degli aiuti al prigioniero russo che mi aspettava.
Non sempre l’operazione era realizzabile, a volte i russi indicandoci con gli occhi la guardia muovevano negativamente la testa. In quel caso dovevamo ripetere l’operazione la sera dopo. Devo per obiettività riconoscere che i nostri aiuti furono possibili anche perché diversi soldati tedeschi che montavano di guardia facevano finta di non vedere le nostre manovre.

Va precisato che la rete capillare di compagni che faceva capo a mia madre e che aveva l’incarico di raccogliere le donazioni non era nata specificamente per il sostentamento dei soldati sovietici ma aveva una gloriosa e antica storia. Essa faceva parte di una cultura di classe che risaliva ai primordi del Movimento operaio, quando gli aiuti raccolti servivano per consentire la sopravvivenza ai lavoratori rimasti privi di lavoro. Durante il fascismo questa catena di solidarietà acquisì una specifica connotazione politica ben espressa dal nome che le fu dato: Soccorso rosso.

Per i comunisti raccogliere soldi, cibo e vestiario non fu solo un modo per contribuire al sostentamento dei perseguitati dalla dittatura, ma rappresentò un efficiente mezzo di sensibilizzazione politica della gente e di mobilitazione del partito. Il successo delle “collette” finalizzate ad aiutare gli antifascisti e poi, durante la guerra di liberazione, i partigiani, confermano l’esistenza di una diffusa anche se non militante opposizione al regime fascista.

Per ottenere offerte negli anni caratterizzati dalla carestia della guerra bisognava ottenere fiducia, essere credibili e per essere credibili bisognava non indulgere in tentazioni. Nulla, non un grammo di pane, non un soldo, doveva essere distratto dalle finalità enunciate. Quanto questo principio morale fosse vincolante per mia madre e per tutti i compagni che l’aiutavano nel Soccorso rosso lo testimonia questo piccolo episodio.

A natale del ’42, donarono per i prigionieri russi di viale Corsica una scatola di fichi secchi. Mia madre in attesa che si organizzasse la consegna, mise la scatola in un armadio davanti al mio letto. Non avevo mai mangiato dei fichi secchi! La notte mi alzai e ne presi alcuni, sperando che nessuno aprisse la scatola. Ma così non andò. Mia madre quando stava preparando il pacco da portare ai russi tolse la scatola dall’armadio e l’aperse. Non sto a dire cosa successe e come fui punito. Non ricordo esattamente le sue parole ma le posso così riassumere: “Non importa – mi disse – se si tratta di poca cosa, di alcuni fichi secchi. Non erano per te, ma per altri che stanno peggio di te”. Allora la punizione che mi diede mi sembrò eccessiva: in fondo, pensai, non avevo rubato che un po’ di fichi secchi! Ero troppo piccolo per rendermi conto che con quel gesto avevo infranto il principio di rettitudine morale che costituiva la base del Soccorso Rosso.

In conclusione di questa testimonianza cito, tradotti, alcuni passi degli scritti che i prigionieri ci fecero avere prima di essere deportati, nell’aprile del 1943, ad Amburgo:

Carissima signora,
noi siamo prigionieri russi e vi ringraziamo di tutto cuore, cara mamma, per ciò che fate per noi. Quando vi vediamo, senza volerlo ci tornano alla mente le nostre care madri che abbiamo lasciato nella nostra cara Patria. Dovete scusarci ma noi vi chiamiamo nostra madre. Spesso i tedeschi ci lasciano senza mangiare. Se non ci fosse stato il vostro aiuto chissà cosa sarebbe stato di noi. Non sappiamo proprio come ringraziarvi. Se salveremo la vita e torneremo alle nostre case, non vi dimenticheremo mai. Voi rimarrete nel nostro cuore per tutta la vita. Vi ringraziamo di tutto cuore e vi baciamo come la nostra cara madre.

Delle lettere che seguirono cito solo alcuni brani.

Carissima mamma, ( 20- 1- 1943)
…I tedeschi ci torturano ma la vostra solidarietà ci aiuta in certi momenti a sopportare tutte le disgrazie. Vi preghiamo cara mamma, di non spendere tanti soldi, non comperate roba cara, come il vino …”

Caro Edio, ( 14- 4- 1943)
Ricordati che noi russi ti vogliamo bene più di chiunque altro (parola illeggibile). Credi Edio che verrà il tempo migliore …e allora la storia renderà merito a tuo padre e pure a te e a tua madre….

Nostri cari amici (15-4- 1943)
noi vi abbiamo già scritto, ma ancora una volta vorremmo dire in queste poche righe quel rispetto e quell’amore che sentiamo per voi, nostri cari amici. Dopo che vi lasceremo, chi si incontrerà in Germania? Questa domanda ci preoccupa moltissimo. Ma noi sappiamo una cosa, che l’aiuto da voi offerto ci aiuterà a salvarci nella Germania affamata, finché la verità avrà vinto il male. Adesso attenderemo pazientemente il tempo quando la verità vincerà non solo sulla terra russa ma in tutta Europa. Mamma, papà , Edio arriverà il tempo quando ci ritroveremo. Vi abbracciamo ancora una volta
Fedja, Vanja, Volodia, Mishka, Sacha, Kusja, Alexei

Nel 1959, alcuni giornali sovietici, grazie alla testimonianza di prigionieri sopravvissuti, raccontarono l’episodio citato, e nel 1960 la rivista “Realtà sovietica” rintracciò “mamma Marina” e tutti noi.

Edio Vallini