Storia delle origini e dell’attività del Convitto Rinascita

di Luciano Raimondi e Augusto Pancaldi

La nascita del Convitto scuola della Rinascita di Milano – dal quale presero esempio e vita le analoghe istituzioni di Cremona, Bologna, Roma, Reggio Emilia, Genova, Torino, Sanremo e Venezia – ha radici ormai lontane nel tempo ma facilmente reperibili per l’attento storico che voglia ricostruire fatti ed esperienze attraverso cui maturò e si concretò l’idea di questo tipo di scuola democratica.
greppimg72Era l’ottobre 1944. Caduta la repubblica dell’Ossola, decine di garibaldini riparati in Svizzera vennero confinati dalle autorità locali nel duro camp spécial di Schwarz-See affinché, per tutta la durata del conflitto, non avessero alcun contatto con il mondo esterno.
L’idea nacque nelle capanne del campo e si concretizzò, nei mesi di inattività invernale, in una serie di corsi per internati che comprendevano lezioni di lingue straniere e di storia. Niente di più. Ma si trattò di una prima esperienza che dimostrò, ai partigiani insegnanti della X Brigata Rocco trovatisi a contare le ore di Schwarz-See, quanto ci sarebbe stato da fare, alla fine della guerra, per ricondurre i giovani sulla strada degli studi interrotti o mai cominciati, e quanto ancora in direzione di un rinnovamento democratico dei metodi di insegnamento.
Ma nessuno, a Schwarz-See, poteva pensare di approfondire questa prima idea in attesa che altri provvedessero a sconfiggere definitivamente il fascismo. La primavera del ’45 vede garibaldini e insegnanti riprendere la strada del confine, guadagnare il territorio italiano, ricostruire le antiche brigate; le quali però, dopo l’esperienza del camp spécial, si arricchiscono di alcuni aspetti nuovi, culturali: un giornaletto stampato alla meglio, turni di riposo dedicati alla conversazione, alla discussione, lezioni fatte fra uno scontro e l’altro, fra una puntata e l’altra nel cuore del nemico. Poi le ultime, vittoriose battaglie, il trionfo dell’insurrezione, la smobilitazione dei reparti partigiani.
Agli insegnanti che hanno vissuto la preziosa esperienza della lotta di Liberazione si prospetta subito un problema: quello di impegnare l’intelligenza dei giovani che hanno perduto dai cinque ai sette anni di scuola, di studenti bisognosi di ricuperare i corsi non frequentati, di ragazzi che non hanno mestiere. Eppoi ci sono i mutilati, gli orfani dei caduti, i senza tetto: una folla che si muove senza un ordinamento preciso, spesso in direzioni sbagliate, nel quadro generale di una spaventosa situazione economica.
L’urgenza del problema agisce come una molla sulla vecchia idea nata a Schwarz-See; gli ideali della Resistenza offrono tutto un patrimonio morale e culturale che può e deve servire di base alla nascita di una scuola nuova, popolare. E la scuola nasce col nome di Convitto Rinascita e prende sede ad Affori, nei locali di un antico collegio.
All’articolo primo dello statuto del Convitto si legge: “I convitti scuola, nati dal movimento partigiano, mantengono vivo nella fondazione della nuova scuola popolare lo spirito di libertà e di lotta per la democrazia che ha ispirato la Resistenza italiana”. Non è soltanto un punto programmatico. E’ un principio morale che sarà il filo conduttore di tutta l’intensa vita di questo istituto.
L’inizio è facile. C’è l’entusiasmo dei garibaldini che trascina tutti; il reduce sfiduciato, il mutilato scoraggiato dalle proprie minorazioni fisiche, l’orfano, ciascuno trova nella vita collettiva del Convitto il coraggio e la fiducia per superare la frattura provocata da tanti anni di guerra. Perché il primo nucleo della scuola è il collettivo e ogni problema che viene posto deve essere risolto non solo in funzione del singolo ma di tutta la collettività, anche di quella più vasta e dolente che vive al di fuori del collegio di Affori; riprendere lo studio troncato, ristabilire una fiducia fatta a pezzi significa cioè dar mano alla ricostruzione morale del cittadino e civile del paese che chiede l’aiuto di tutti.
Questa la grande traccia, il tema da svolgere per gli insegnanti che nel 1945 si mettono all’opera. Ma tutto ciò richiede impostazioni diverse da quelle tradizionali: ed ecco i principi nuovi, il metodo di insegnamento non cattedratico ma democratico, il rapporto di reciproca fiducia ed collaborazione fra allievo e insegnante, la responsabilità d’ogni convittore e il suo contributo obbligatorio al miglioramento della vita collettiva.
Passo per passo, l’idea del 1944 si concreta in un modello di nuova scuola popolare. La domenica i convittori escono a schiera, danno mano al piccone, smantellano i muri pericolanti dei palazzi colpiti dai bombardamenti, scavano quintali di macerie, liberano strade, e sui muri di Milano, all’alba, si infittiscono scritte di questo genere: “I garibaldini del Convitto Rinascita invitano i giovani a contribuire alla ricostruzione”.
Dentro e fuori l’ideale della Resistenza continua, si allarga. Agli insegnanti partigiani dell’Ossola si aggiungono i resistenti di Milano. Raimondi e la dottoressa Dell’Acqua vengono affiancati da Maffioli, Callegari, Bianca ed Elena Ceva, Antonio Basso, Fiocca, Pellegatta, Musci. Si tratta di insegnanti socialisti, comunisti, repubblicani, azionisti, liberali, il che ci dice che l’antifascismo è concorde sulla necessità di costruire uno strumento nuovo di cultura e di rinnovamento democratico del costume della gioventù.
In che cosa consiste questo strumento? In una scuola collettiva di modulo nuovo, qualcosa che richiama il college inglese ma con caratteristiche popolari. Quello che nel college è sforzo per dare una struttura borghese, di classe, al carattere, qui è slancio per fare del Convitto un centro di vita, di cultura, di costume che abbia come principio la rinascita del popolo italiano.
I risultati sono presto evidenti e stupefacenti: per la prima volta ex partigiani, venuti dalla campagna con la sola licenza elementare, si trovano a vivere in comunità con studenti dei corsi industriali, liceali, universitari. E per la prima volta ad essi s’apre la prospettiva degli studi superiori. In due anni, preparati e superati gli esami di maturità, entrano al Politecnico di Milano i primi contadini partigiani, espressione finalmente concretizzata di una scuola che ha rotto con la tradizione e ha offerto a tutti i giovani l’identica possibilità di partecipare alla vita culturale della società italiana.
L’articolo 34 della Costituzione repubblicana, che assicura a tutti i meritevoli, a qualsiasi condizione sociale appartengano, il diritto allo studio, è già scritto a grandi lettere, fin dal 1946, nelle aule del Convitto Rinascita.
A quell’epoca, e cioè a qualche mese appena dalla fine della guerra, l’istituto ha già aperto corsi regolari di avviamento industriale e commerciale, corsi di scuola media, corsi di recupero per istituti tecnici e licei mentre decine di universitari poveri trovano, nel convitto, ospitalità e assistenza alla preparazione di esami perduti per cause belliche.
E qui bisogna arrestarsi un attimo per fare un primo bilancio. Una “casistica” del tipo di allievo che frequenta il convitto in questo periodo è illuminante: c’è il contadino “fucilato” e scampato per caso alla morte; c’è il sopravvissuto di un’intera famiglia distrutta nell’eccidio di Marzabotto; c’è il ventenne che ha passato quattro anni della sua vita fra lager, interrogatori e combattimenti; c’è l’orfano del partigiano e l’orfano del fascista diventato partigiano; c’è l’operaio mutilato che chiede una rieducazione professionale: un’umanità insomma passata attraverso le più dolorose esperienze, una gioventù che sorprende gli insegnanti per il grado di maturità raggiunto e che impone soluzione sempre nuove nei metodi di insegnamento. E le discussioni si prolungano, a volte, fino a tarda sera, le decisioni sono prese di comune accordo fra allievi e insegnanti, come vuole il costume democratico della scuola.
Intanto altri problemi si affollano alla vita del Convitto: quello, prima di tutti, di una regolar vita amministrativa che permetta l’attrezzatura completa della scuola che ora si è trasferita in via Conservatorio.
Lo Stato, con una convenzione stipulata dal ministero dell’Assistenza post-bellica, eroga dal ’46 una retta giornaliera “personale” a ogni allievo. E questi versa la retta alla cassa del Convitto secondo il principio della “cambusa” dei carcerati antifascisti. Pagati i viveri, quello che resta serve all’acquisto di strumenti scientifici, di libri, di arnesi da lavoro. In una parola, l Convitto trasforma il denaro dello Stato in patrimonio culturale, in organizzazione tecnico-scolastica.
Contemporaneamente lo studio procede accelerato in ogni corso, i recuperi sono sempre straordinari e, come tali, sorprendono le commissioni statali d’esame. Pur tuttavia c’è anche il tempo per lavorare un po’ dappertutto, per dare una mano alla ricostruzione. Le vacanze del ’46, ’47, ’48 vedono i giovani convittori al lavoro nei campi, sulle strade ancora sbriciolate dell’Appennino emiliano, nelle città d’Europa distrutte dalla guerra. E il patrimonio di esperienze si accresce per ognuno e diventa patrimonio di tutti.
Così fino al 48, quando il Convitto ha già preso sede in via Zecca Vecchia da dove s’è voluto sfrattarlo in questi giorni per far posto a caserme e alla sede dell’Istituto Britannico, fino cioè a quel 18 aprile che segna la fine d’ogni governo di unità nazionale. A quella data comincia, nel quadro generale di una politica di discriminazione, anche l’attacco serrato ai Convitti da parte dei governi democristiani.
Le sovvenzioni individuali della post-bellica, sciolto questo ministero e passate le sue casse alla cura incontrollabile del ministro dell’interno Scelba, anno per anno vengono ridotte fino a cessare completamente nel 1952. E nel 1952 il Convitto Rinascita, che ha subito già ogni sorta di persecuzioni governative (indagini, ispezioni improvvise, accuse e calunnie interessate) può vantare il seguente bilancio:

Partigiani e reduci recuperati agli studi
(abilitazioni, maturità, lauree) 153

Partigiani e reduci specializzati in rami tecnici di mestiere 1.176

Mutilati e invalidi istruiti in mestieri
specializzati
218

Orfani di partigiani e caduti istruiti
e assistiti completamente
150

Lo stesso Gonella, allora ministro della Pubblica Istruzione, deve riconoscere con una lettera di elogio l’opera svolta dal Convitto Rinascita.
Dal 1950 intanto, anche all’interno del Convitto va operandosi una trasformazione: il “tipo” di allievo cambia gradatamente; escono col diploma gli ex partigiani, entrano sempre più numerosi i giovanissimi, gli orfani dei Caduti, i figli dei lavoratori che, superato un concorso, trovano al Convitto Rinascita la possibilità materiale di continuare gli studi.
E naturalmente, cambiando il tipo di allievo, anche il tipo di vita interna deve mutare. Qui non c’è più la maturità del combattente partigiano che da solo era garanzia di sviluppo per la collettività; qui c’è il bambino di dieci anni che compie i primi passi in una società incerta. E allora ecco nascere nuove formule di insegnamento basate su un principio di democrazia che non è quella formale di tanti collegi borghesi, ma che è democrazia effettiva in quanto dà all’allievo compiti e responsabilità che egli è in grado di assumersi. Eppoi l’insegnamento nuovo, vivo, basato sulla storia, sull’esperienza diretta, sulla pratica.
Nei laboratori, altra trasformazione: di giorno arrivano i disoccupati che cercano di farsi una specializzazione di mestiere, di sera vengono i lavoratori che vogliono migliorare la loro qualifica. Corsi di tecnica grafica, di orologeria, di disegno, di acconciatura e di analisi chimica richiamano sempre nuove forze e si affiancano ai corsi di studio propriamente detti: il Convitto, pur attraverso tante tempeste, è in piena attività, rappresenta veramente il primo tipo di nuova scuola popolare dove i giovani sono allevati nel ricordo della Resistenza, con un insegnamento nuovo, un costume morale nuovo, una vita nuova e democratica.
E’ qui che, diventata pubblica la nostra scuola e riconosciuta a malincuore dal ministero della Pubblica Istruzione, si tenta il colpo decisivo per eliminarla, come è già accaduto, dal ’50 in poi, coi convitti di Sanremo, Reggio Emilia, Cremona, Roma e Bologna. La storia della recente battaglia è nota.
L’attacco è portato nell’agosto del 1955, alla fine dei corsi che avevano avuto questo bilancio:

Ragazzi, figli di operai ed orfani assistiti
completamente con borse di studio dalla
scuola media all’Università
50

Studenti di scuole tecnico-industriali ospiti
del convitto a retta di puro costo
80

Giovani nei corsi tecnici diurni e serali del
Centro professionale del Convitto
300

Ma la battaglia è vinta, il convitto vive continuando la sua lotta per il rinnovamento della cultura e dei metodi di insegnamento. E, annunciando la riapertura delle lezioni per l’anno 1955-56, la scuola Rinascita ha risposto alle provocazioni con un esempio di operante serenità: l’inaugurazione di sei nuovi corsi diurni e serali di specializzazione che tengono fede, a dieci ani dalla Liberazione, agli ideali di rinnovamento morale e di ricostruzione economica del paese sui quali si fondò la nascita del primo Convitto scuola d’Italia che non a caso aveva preso il nome di Rinascita.

NB L’articolo qui riportato è comparso sul numero di luglio 1955 della rivista “Rinascita”. La “battaglia” cui si allude è quella sostenuta per la sopravvivenza del Convitto, che era stato sfrattato dalla sede di Via Zecca Vecchia. Con molta fatica si riuscì ad ottenere una nuova sede, in una ex fabbrica vuota e malconcia, in zona Giambellino a Milano. Il Convitto, trasformato in scuola media sperimentale “Rinascita”, funziona ancora lì accanto.