ALCUNE PRECISAZIONI. A proposito di uno scritto anonimo su Azione Comunista

E’ recentemente apparso su internet un breve saggio su Pietro Secchia e Azione Comunista. Lo scritto è anonimo, non si sa per quale ragione l’autore sia stato spinto ad indagare dettagli non molto rilevanti di fatti ormai remoti. Va comunque considerato benvenuto ogni contributo che permetta di far luce sulla tormentata storia del secolo scorso e di un partito – il PCI – che fu il più grande partito comunista d’occidente.

L’ignoto autore dimostra di essere ben informato, citando con precisione documenti ineccepibili come scritti dello stesso Secchia, di Bera, Ricaldone, Donini e articoli dell’“Unità”. Per quanto riguarda invece la storia di Azione Comunista e le vicende personali di Luciano Raimondi, non viene usata la stessa accuratezza, i documenti sono di dubbia serietà (“La Riscossa”, organo del Partito comunista) e le interpretazioni sono quanto meno discutibili.

In primo luogo, si afferma che nel 1966 Azione Comunista “confluì nella Federazione marxista-leninista che aveva come organo il periodico ‘Rivoluzione Proletaria’. Di quest’ultimo Luciano Raimondi fu direttore fino al 1967”. Non è corretto: anzitutto Raimondi ne fu solo il direttore responsabile, sul piano esclusivamente giuridico, e tale restò fino alla fine del 1969, malgrado il suo trasferimento all’estero dall’ottobre 1966. In quella sua veste, nel 1969 venne incriminato per due articoli imprudenti pubblicati sulla rivista, subì un processo che si svolse alla metà di dicembre del 1969, e venne condannato a sei mesi di carcere con la condizionale: in contumacia, perché si trovava in Messico, sull’orlo dell’asilo politico. La sentenza fu poi cancellata da una successiva amnistia.

Si riporta poi un passo pubblicato da “La Riscossa”, che nel 1999 (tre anni dopo la morte di Raimondi) scrive: “…partecipa alla fondazione, nel 1966, della Federazione dei marxisti-leninisti del cui organo di stampa ‘Rivoluzione proletaria’ è (di nuovo) proprietario e direttore responsabile”. Come già detto, Raimondi ne era il direttore responsabile, ma non il proprietario. Prosegue “La Riscossa”, sempre a proposito di Raimondi: “Nel 1969, da una scissione della suddetta Federazione, nasce il Partito rivoluzionario marxista-leninista d’Italia: come proprietario e direttore responsabile farà di “Rivoluzione proletaria” l’organo di questo partito. Dopo di che se ne va dall’Italia”. Cioè se ne va dopo il 1969.

In verità è facile controllare sulla documentazione del Ministero della Pubblica Istruzione e degli Esteri che Raimondi si trasferì all’estero il 15 di ottobre del 1966. Non tornò più in Italia fino alla primavera del 1972, quando vi si recò per un brevissimo periodo per iniziare le pratiche di divorzio dalla prima moglie. Tornò ancora per pochi giorni nel 1974, per il secondo matrimonio, e nel 1976 per una breve vacanza. Il suo ritorno definitivo in Italia avvenne all’inizio del 1982, ormai malato e sofferente. Come poteva dirigere un giornale e fondare un partito dal Messico, nelle condizioni di allora, quando una lettera impiegava un mese, le telefonate andavano prenotate 24 ore prima e in Messico neppure arrivavano i giornali italiani? E per di più nel 1969, quando era sottoposto a processo? Evidentemente il buon Raimondi, come Dio padre, doveva godere del dono dell’ubiquità.

A proposito del lavoro svolto da Raimondi all’estero, continua da anni un pervicace travisamento delle sue funzioni: lo si definisce “funzionario del governo italiano”, mentre egli era semplicemente un professore staccato presso l’Istituto italiano di cultura di Città del Messico, incaricato di insegnare lingua e cultura italiana all’Università e al Politecnico, senza alcun compito di rappresentanza ufficiale, senza status diplomatico. Al contrario. Infatti era stato preceduto da una tremenda fama di comunista, era molto malvisto dall’allora direttore dell’Istituto di cultura, professor Dalla Pozza – antico fascista, podestà o federale di Venezia – e veniva considerato un appestato dai funzionari dell’Ambasciata e tenuto accuratamente alla larga da tutto e tutti. Come si può affermare che fosse un rappresentante del governo italiano?

E come si può prendere sul serio la scheda a lui dedicata, inserita nel Dossier Mitrokhin? Quali segreti poteva rivelare al KGB? Vale la pena ricordare a questo proposito che la personalità più eminente coinvolta nel Dossier, Armando Cossutta, sporse querela per le accuse infamanti gettate su di lui dalla stampa di destra, e sia pure con i tempi biblici della giustizia italiana, quando lui era già mancato, gli eredi ebbero un risarcimento di 50.000 euro. La sentenza dimostra in modo lampante l’infondatezza delle accuse di spionaggio e la scarsa credibilità da accordare a quelle schede. Anche la speciale Commissione del Parlamento concluse nel nulla i suoi lavori, ma nel frattempo, in seguito alla feroce campagna di stampa montata dalle destre, un vecchio ambasciatore e un vecchio giornalista erano morti, schiacciati dal macigno di quelle accuse infondate e infamanti. Per fortuna, bisogna dire amaramente, Raimondi era scomparso nel 1996.

A margine, a proposito di rappresentanti ufficiali dell’Italia, vale la pena osservare come il governo dominato dalla Democrazia cristiana preferisse personalità di ben altro tipo per le funzioni davvero rappresentative: nel 1966 era ambasciatore d’Italia a Città del Messico il nobile Guastone di Belcredi, un convinto monarchico che in occasione di una visita dell’ex re Umberto di Savoia in Messico si precipitò a porgergli il suo omaggio. Il fatto venne perfino riportato con malcelata sorpresa dai giornali messicani: nessuna reazione da parte delle autorità italiane. Alcuni anni dopo, divenne ambasciatore in Messico Luigi Bolla, un diplomatico entrato in servizio in piena era fascista e poi diventato alto funzionario della Repubblica Sociale, autore del libro “Perché a Salò” edito nel 1982, che diede inizio a un’azione di revisionismo storico e di anti-antifascismo, poi favorita da Berlusconi e che prosegue ancor oggi. Questi erano i veri rappresentanti ufficiali della Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza: un monarchico e un fascista. Un perfetto ossimoro.

Proseguendo le citazioni da “La Riscossa”, l’anonimo autore continua ironicamente a proposito di Raimondi: “…se ne va dall’Italia per una nuova impresa rivoluzionaria? Per sottrarsi alla repressione? Per sfuggire alla vendetta degli odiati revisionisti?” No, l’ironia è fuori luogo. Un uomo, anche se attivo politicamente, non è mai a una dimensione, è un uomo con tutte le sue passioni e le sue vicende private: Raimondi ha una nuova giovane compagna e aspettano un figlio, che le leggi allora vigenti in Italia gli vietano di riconoscere legalmente come suo. Raimondi cerca allora di trasferirsi in un paese dove possa essere semplicemente il padre di suo figlio: per una felice coincidenza, il suo curriculum professionale corrisponde esattamente alle richieste avanzate dal citato professor Dalla Pozza, e le leggi messicane gli permettono di riconoscere il figlio. C’è poi la circostanza non indifferente che l’America Latina in quegli anni ribolle di slanci rivoluzionari (è ancora vivo Che Guevara) e il Messico costituisce un ottimo punto di osservazione. Raimondi passa un esame al Ministero degli Affari Esteri, viene approvato, e nel giro di poche settimane la sua vita prende quella piega inattesa. Parte per il Messico il 14 ottobre 1966, nel gennaio 1967 nasce il primo figlio, una bimba, seguita l’anno dopo da un fratellino. Il suo nuovo impegno di padre spiega anche il suo allontanamento dalla politica attiva.

L’anonimo autore in questione prosegue citando uno scritto di Raimondi del 1978, ritrovato pochi anni fa e riportato sul sito del Centro Studi Luciano Raimondi. Esordisce affermando “non ci è dato conoscere lo scopo per cui venne redatto”. Se l’anonimo avesse letto con un minimo di attenzione il breve testo, avrebbe visto che lo scopo è chiaramente esplicitato: un giornalista dell’“Espresso”, Maurizio Riva, aveva inseguito Raimondi per telefono sia in Finlandia, dove allora risiedeva, sia in Messico, dove si era recato per terminare il suo corso radiofonico di italiano. Lo scritto di Raimondi è la risposta alle sollecitazioni dell’Espresso.

In seguito si afferma che “il Raimondi giunse ad attribuire al compagno Secchia… l’idea che il suo avvelenamento fosse opera dei togliattiani”. Spiace vedere come sia travisato lo scritto di Raimondi, il quale a quella delirante ipotesi premette un prudente: “Pare che Secchia…” e conclude con una netta affermazione: “L’avvelenamento è da escludere”. Un’altra inesattezza attribuisce l’origine di Azione Comunista a un trio formato da Raimondi, Bruno Fortichiari e Giulio Seniga: il trio invece comprendeva, oltre a Raimondi e Fortichiari, anche il sindacalista Emilio Setti, ingiustamente dimenticato. Infine, nell’ultima pagina del testo, l’anonimo reitera che Raimondi, insieme con Giuseppe Maj, diede vita al Partito rivoluzionario marxista-leninista nel 1968. Ma non è che poche righe più indietro aveva indicato il 1969? La citazione delle due diverse date rende conto dell’accuratezza usata per la ricostruzione storica. Evidentemente la precisione è riservata ad altri testi, mentre le inesattezze, le incongruenze, le invenzioni di sana pianta sono riservate alle vicende e agli scritti di Luciano Raimondi. Perché tanta acrimonia personale?

Ancora una citazione da “La Riscossa” afferma che Raimondi “nei primi anni 60 si improvviserà filocinese”: forse non tutti sanno che il giovanissimo Raimondi, negli anni 30, al tempo dell’Università, aveva studiato la lingua cinese, si era diplomato e aveva vinto una borsa di studio a Pechino, dove non poté recarsi per le vicende belliche che erano iniziate con la guerra cino-giapponese. L’interesse per la Cina, per la sua grande civiltà, per la sua originale cultura, per gli avvenimenti rivoluzionari che vi si svolgevano, non era certo un’improvvisazione opportunistica del momento, come si insinua.

Quanto poi al giudizio, sempre contenuto nel testo de “La Riscossa” circa la “sanguinosa controrivoluzione anticomunista” dell’ottobre 1956 in Ungheria, che Azione Comunista avrebbe difeso, non è il caso qui di addentrarsi nell’analisi della vicenda: basti ricordare la parte che vi ebbero il filosofo Gyorgy Lukacs e il suo allora giovane allievo Istvan Meszaros per capire che la rivolta fu anti-sovietica, ma resta da dimostrare che fosse anti-comunista. Sarebbe opportuno leggere almeno l’opera di Meszaros “La rivolta degli intellettuali in Ungheria”, pubblicata in Italia nel 1958, per dare un giudizio informato ed equilibrato, senza pregiudizi e frettolose etichettature.

Sempre una citazione da “La Riscossa” riporta un giudizio di Secchia “di 44 anni fa. In una nota definì testualmente Azione Comunista ‘la solida merda anticomunista’” Non viene indicata la fonte precisa di tale giudizio, e ci sono seri dubbi che sia stato inserito in qualche pubblicazione ufficiale del PCI. Sorgono dubbi anche sull’opportunità di pubblicarlo nella sua crudezza – era probabilmente un appunto privato e riservato – ma se qualcuno ritiene di farlo, se ne prende anche la responsabilità. Comunque, a giudicare oggi da come è finito quel glorioso partito, nelle sue tormentate mutazioni da PCI a PDS a PD, con Occhetto, D’Alema e i più recenti epigoni che nel settembre 2019 al Parlamento europeo hanno approvato l’equiparazione fra nazismo e comunismo, si può dire che pur con tutti i meriti passati (e ci sono, e tanti, con la Resistenza al nazifascismo) il partito sia ingloriosamente finito nella stessa materia maleodorante.

Raimondi per tutta la vita, e anche oltre, è stato bersagliato dagli anticomunisti perché comunista, e dai comunisti perché anticomunista. Ciò non gli ha impedito di vivere con serena operosità. A Città del Messico, dopo più di 50 anni dal suo arrivo, è ancora vivo il ricordo della sua colta e vivace opera di divulgazione culturale, e lo stesso a Helsinki.

E fra chi ne fu allievo, e fra chiunque si occupi oggi di pedagogia, rimane vivo il ricordo e l’esempio delle scuole da lui fondate, i Convitti scuola della Rinascita. Una insigne pedagogista, Silvia Kanizsa, così le giudica: “L’esperienza dei Convitti Rinascita può essere vista come un esperimento ben riuscito di una scuola per tutti, attiva, motivante e di successo… Certamente l’idea che la scuola debba premiare e sostenere il merito e che tutti abbiano gli stessi diritti ha una matrice politica precisa, ma al di là delle distinzioni politiche e ideologiche è sempre stata condivisa da tutti coloro che si sono occupati di scuola in senso democratico… I professori che hanno operato nei Convitti Rinascita erano evidentemente molto motivati, molto competenti e appassionati, interessati a soluzioni didattiche nuove, pronti a mettersi in gioco, consci dell’importanza dello studio per la crescita umana e sociale delle persone. Basti pensare alla figura di maggior spicco del gruppo, a Luciano Raimondi, che per tutta la sua vita avventurosa ha sempre coltivato la passione dello studio e dell’insegnamento, convinto che tutti desiderano imparare e possono farlo con passione”.

Così viene ricordato da chi lo ha conosciuto e frequentato: come “partigiano straordinario” (così lo qualifica Rossana Rossanda), come insegnante appassionato, come intellettuale di vasta cultura filosofica, storica e letteraria, come critico d’arte attento e sensibile, come musicista squisito (era anche un buon violinista), come persona di grande umanità e dalla personalità ricca e multiforme. Con buona pace dei pretesi storici e delle loro panzane.

10 Luglio 2020

Nunzia Augeri