Luciano Raimondi,
La formazione e la lotta partigiana

bandoconcorso72Lo scritto autobiografico, redatto su richiesta di Aldo Aniasi nel 1974, quando Raimondi si trovava in Messico, è già stato pubblicato nel volume “Guerriglia nell’Ossola, Diari, documenti, testimonianze garibaldini” a cura di M. Fini, F. Giannantoni, R. Pesenti, M. Punzo. Prefazione di Aldo Aniasi. Feltrinelli Editore, Milano, 1975.

La Resistenza antifascista, sentita e intesa come rivoluzione totale e affermazione di una nuova democrazia fondata su nuove strutture in campo economico, politico e culturale, è stata il “mito” valido che ha formato la mia giovinezza. Di famiglia operaia del rione Garibaldi di Milano, ebbi, tramite mio padre, le prime esperienze dell’organizzazione socialista della classe operaia, delle società di mutuo soccorso, del dibattito nelle prime sezioni comuniste (Via Nicolini, vicino a Porta Garibaldi), degli scontri violenti con le squadre fasciste (incendio della Cooperativa Sassetti).

Le scuole elementari da me frequentate dal 1922, a Porta Nuova, non avevano ancora perso l’impostazione di concretezza, di laicità e democrazia, che era stata il vanto dell’amministrazione socialista della città di Milano. Gli studi medi e universitari potei frequentarli grazie all’aiuto di un professore antifascista, Luigi Pellegatta, di formazione cattolica ma membro attivo della Compagnia di San Vincenzo, istituzione religiosa operante in stretto contatto con i problemi della povera gente del rione Garibaldi. Ricordo la polemica di Pellegatta contro la politica di accettazione del fascismo dell’On. Cavazzoni, del Partito popolare, e la sua collaborazione entusiasta in campo sociale, culturale ed artistico con Don Mercalli, fratello del grande sismologo, “parroco dei poveri” del rione Garibaldi, oltre che intelligente promotore del restauro dello splendore romanico della chiesa di Santa Maria Incoronata.

Anche nelle scuole medie e soprattutto universitarie, alla facoltà di filosofia dell’Università statale di Milano, ebbi la fortuna di incontrare maestri dell’opposizione antifascista, come i professori Antonio Banfi, Adelchi Baratono, Federico Chabod, Benvenuto Terracini. Studiando e lavorando, della scuola usufruivo come sede di esami: la preparazione consisteva fondamentalmente in un lavoro personale, una mia libera ricerca guidata discretamente dal mio benefattore Pellegatta, cui si era aggiunta Claudia Maffioli, figlia dell’ex deputato socialista, nell’appassionata ammirazione per personalità come Piero Martinetti, Gioele Solari, Ernesto Buonaiuti, Benedetto Croce, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, fino ad approdare a Marx. Lo stesso maestro-tutore Pellegatta dalla prima convinzione evangelico-cristiana, veniva trascinato sulle mie stesse posizioni marxiste.

Nel colmo della dittatura fascista, intorno al 1935, con la collaborazione dell’ingegner Usiglio, dell’ingegner Fillak, di Jesi e altri, organizzavamo gruppi di azione antifascista per la nostra propaganda nel centro di Milano. Era chiaramente una manifestazione antifascista l’organizzazione di una conferenza di Ernesto Buonaiuti nella “Sala azzurra”, dopo che questi era stato scomunicato e dichiarato “vitandus” dalla Chiesa cattolica e lo Stato lo aveva allontanato dalla cattedra di storia delle religioni nell’Università di Roma. Lo stesso significato di rivendicazione di libertà politica avevano le conferenze di Piero Martinetti, anch’egli allontanato dalla cattedra di filosofia dell’Università statale di Milano dopo aver rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al fascismo.

Negli stessi anni, frequentando le lezioni di cinese all’ISMEO, incontrai quasi per caso i fratelli Cattaneo, iscritti agli stessi corsi, operai comunisti militanti, che mi impegnarono a un’azione precisa e disciplinata di lotta antifascista. Credo di essere stato allora uno dei pochi considerati “intellettuali” di Milano in contatto operativo con la piccola base operaia milanese che si trovava in collegamento clandestino con il centro estero del PCI. I compagni Cattaneo vennero successivamente arrestati e io potei riprendere contatto con loro solo dopo l’8 settembre 1943, alla loro uscita dal carcere. Nel frattempo, sospeso ogni rinvio per gli studenti universitari, ero stato chiamato alle armi, e dopo un periodo in Erzegovina, mi trovavo aggregato all’VIII Fanteria, alloggiato a San Damiano presso Monza.

La crisi dell’8 settembre e l’occupazione nazista scatenarono l’iniziativa dell’organizzazione della Resistenza. Nel mio stesso reggimento si aprì una intesa immediata tra ufficiali amici antifascisti, come Aldo Aldovrandi; il gruppo Usiglio, con la moglie Renata, e Fillak intensificava la propria attività di azione e di elaborazione di programmi politici antifascisti unitari; gli amici di Banfi, con la partecipazione della moglie, signora Daria, e del figlio Rodolfo, con la professoressa Maffioli, si mossero nella stessa direzione. Scoppiava il miracolo della cooperazione unitaria e pulsante dell’antifascismo, marxista come nucleo, subito arricchito dall’opera di “azionisti” come Alonzi, uno dei luogotenenti di Parri.

Contattato dai Cattaneo appena usciti dal carcere e da Giovannacci, potei con Aldovrandi e con compagni operai di Monza organizzare il recupero di armi dell’VIII Fanteria in dissoluzione e portarmi sulle montagne sopra Lecco, in Valsassina. Nasceva così il gruppo Carlo Marx, la prima formazione stabile armata della zona. Un comitato lecchese, che faceva capo al colonnello Morandi, lo sosteneva con il programma della diffusione della Resistenza armata in tutta la zona, popolata di ex alpini e di personalità antifasciste.

Grazie al gruppo Carlo Marx, alcuni ebrei e prigionieri alleati provenienti da Milano poterono essere protetti e in alcuni casi guidati in territorio svizzero.

Il dubbio se convenisse organizzare la lotta armata sulle montagne o solo con gruppi di azione in città, prospettatomi dai compagni Cattaneo, cui si era aggiunto Giorgio Agliani, venne presto superato nel senso dello sviluppo della lotta in tutti i settori in movimento. Fu allora che intorno a Lecco i nazisti posero il famoso cartello “Achtung, Banditengebiet. Sichert euch”.

La polizia nazifascista riuscì a catturarmi nel lecchese il primo marzo 1944. Trasferito alle carceri di San Donnino in Como, nel giugno 1944, approfittando di un momento di smarrimento dei nazifascisti dovuto all’entrata in Roma degli Alleati, riuscii ad organizzare un’evasione dalle carceri. Aiutato da Claudio Gianatti, secondo un piano elaborato dal CLN di Como e fattomi pervenire in carcere da Claudia Maffioli, sopraffatte le guardie, uscimmo in quarantaquattro.

Trovato rifugio nella villa di Aldo Crespi a Brunate, l’organizzazione del CLN ci mise poi in grado di passare in territorio elvetico grazie alla collaborazione del giovane Binda, detto “Banana”, e di un gruppo di contrabbandieri.

Internato al campo di lavoro di Lajoux, ebbi modo di incontrare Walter Fillak e Saverio Tutino. Dall’esilio svizzero potemmo uscire grazie all’intervento del PCI, che organizzò il rientro frale formazioni partigiane, secondo il nostro desiderio. Fillak e Tutino passarono in Val d’Aosta ed io nell’Ossola.

Sono arrivato a Domodossola liberata proveniente dal campo di lavoro di Lajoux, in Svizzera. Prima di raggiungere il comando della Redi a Villadossola avevo passato un certo periodo nella formazione “Battisti”, monarchico-badogliana, e poi nella “Matteotti” in Val Vigezzo, che si trovava in fase di organizzazione. La mia insoddisfazione di essere capitato in quei due reparti politicamente abbastanza immaturi fu colta a volo da Nino Seniga, elemento di collegamento del PCI (lo stesso che mi aveva fatto uscire dalla Svizzera) che mi “prelevò” con una macchina dal comando di polizia dell’Ossola, presentandomi alla “Redi”.

In quel momento vissi il periodo di attività febbrile che si proponeva di trasformare le bande partigiane di origine diversa in esercito organico. La resistenza nazifascista inchiodatasi a Gravellona esasperava i reparti garibaldini, che avevano coscienza dell’importanza e della pericolosità di quel ridotto, che se fosse stato travolto avrebbe dato sfogo più ampio verso la pianura all’azione partigiana o comunque avrebbe assicurato posizioni strategiche ben più forti per la difesa della zona libera. Evidentemente l’entusiasmo e il coraggio non mancavano ai garibaldini che tentarono anche di espugnare la posizione di Gravellona: occorrevano però armi pesanti che altri non volevano mollare.

Alla Redi mi fu fatta la proposta di operare nel servizio medico con il dottor Pino Rossi (avevo la laurea in filosofia, ma ero arrivato anche al quarto anno di medicina). Rifiutai la proposta per il mio desiderio di stare nei reparti combattenti e mi assegnarono allora come commissario alla Decima Brigata “Rocco”. Si trattava di potenziare e organizzare la brigata che si articolava su vecchi reparti talvolta operanti con autonomia di banda (come la “Bariselli” e la “Volante azzurra”) integrandovi anche forze nuove di giovanissimi che ne completavano l’organico.

Ad alcuni reparti della Decima assegnarono la vigilanza della Val Formazza. Mi insediai a Valdo e là potei avere l’esperienza della collaborazione fra la gente della valle e le forze partigiane: assemblee con la presenza nostra dove si trattavano problemi comuni, di un’amministrazione democratica dei pascoli e dell’organizzazione di leve nuove per l’esercito partigiano e di una struttura di base popolare di sostegno.

Mentre stavo guidando una colonna di rifornimenti che la gente delle valli aveva procuratori partigiani insediati a Domo, mi trovai bloccato da forze nazifasciste che già salivano per la valle del capoluogo. Dovetti dirottare per passi secondari con muli e carichi. Ad un certo punto, lasciati i muli e congedati i loro conducenti valligiani, presi a spalla viveri ed armi, potemmo raggiungere l’Alpe Valescia, sopra Trasquera, tra le sparatorie nostre e delle avanguardie nazifasciste.

All’Alpe Valescia ci sistemammo in una ventina in alcune baite, persi ormai i contatti con il comando della brigata, della divisione e con gli altri reparti della Decima. Finiti i viveri, incominciando il periodo delle nevi, il gruppo della Valescia, l’ultimo rimasto nella zona nord dell’Ossola, non potè sfuggire alla vigilanza dei rastrellatori che puntarono con grandi forze appoggiate da mortai, sulla nostra posizione.

Dopo una certa resistenza, esaurite le poche munizioni, fu giocoforza passare in Svizzera, per le creste dei monti, verso la fine di ottobre. Arrivati a Berna, ci trovammo di nuovo in contatto con altri garibaldini, precedentemente entrati in territorio elvetico da Iselle. Le autorità elvetiche inaspettatamente operarono una discriminazione di trattamento, evidentemente politico, fra gli stessi garibaldini, richiudendone la maggioranza in un campo speciale a Lago Nero, sopra Berna, sotto la vigilanza di un reparto armato dell’esercito svizzero. Organizzammo scioperi della fame di protesta, elaborammo esposti scritti che riuscimmo a fare arrivare a deputati socialisti svizzeri. In seguito a tale azione il campo speciale sarà sciolto.

I primi di gennaio del 1945, con il dottor Pino Rossi, eludendo le guardie svizzere,ero riuscito ad evadere dal campo. Arrivato clandestinamente in Italia attraverso il Gridone, dopo una breve permanenza a Intragna e Cicogna, potei raggiungere di nuovo il comando della “Redi”sul lago d’Orta e riassumere il mio compito di commissario della Decima, dove ritrovai il comandante Andrea Cascella. Ad Arola, sopra il lago d’Orta, riprendemmo le fila della riorganizzazione della brigata, aumentata con l’afflusso di giovani.

La nostra sfera d’azione di estendeva da Arola a Invorio ed Arona, mentre il battaglione “Bariselli”, sempre più strettamente collegato a noi, agiva nella zona del Mottarone, e la “Volante azzurra” – altro nostro battaglione recuperato con la direzione unitaria della brigata – estendeva le sue azioni anche oltre Borgomanero, verso Cameri e Novara. Non mancarono difficoltà di ripartizione di compiti, specialmente nei riguardi della confinante brigata “Servadei”, pure garibaldina. Si trattava però soltanto di fenomeni di emulazione.

Nel febbraio la “Rocco” poté rappresentare il punto di appoggio e di recupero dei partigiani attaccati a Cesara. Attaccati a loro volta da una puntata nazifascista proveniente da Pella, gli uomini della “Rocco” poterono rintuzzarla da una sella soprastante il paese, con un fuoco nutrito.

A Sesto Calende i fascisti non poterono più traghettare con sicurezza: elementi della Decima “Rocco” sequestravano alti ufficiali per i riscatti. I fascisti e i loro collaboratori nella zona vivevano insicuri. I passaggi delle colonne nazifasciste sulla strada Novara-Arona divennero lentissimi e pericolosi. Accampati ed appostati nei boschi antistanti ad Arona e in continuo movimento, i partigiani della “Rocco” ebbero modo di attaccarle ed anche, in qualche occasione, di distruggerle, come a Oleggio Castello, procurandosi prigionieri e armi pesanti. Nella stessa Arona reparti della “Rocco” poterono prelevare armi ed e equipaggiamento della Decima Mas. In occasione di iniziative di attacchi generali partigiani contro centri della pianura novarese sulla strada della Valsesia, la “Rocco” bloccava l’uscita di forze nazifasciste da Arona, realizzando ordini coordinati provenienti dalla Divisione.

Pur conservando la preziosa facoltà di agire di iniziativa propria, sfruttando le occasioni di attacco improvviso che potevano presentarsi quotidianamente, il periodo della guerra per bande era definitivamente superato, nel senso di una guerra partigiana più organicamente concepita e condotta.

Anche nel campo dell’informazione e del vettovagliamento la brigata aveva raggiunto un’efficienza notevole, grazie all’appoggio della popolazione e alla valida esperienza dei partigiani, donne e ragazzi del luogo – preziosa in tal campo l’attività del gruppo di Farfallino Zané. I partigiani avevano sviluppato l’istinto primitivo del ribelle in una definitiva coscienza politica, nel rigoroso controllo dei loro rapporti con la popolazione, nell’iniziativa di giornali di brigata, cui tutti erano chiamati a collaborare per chiarire i motivi politici profondi dell’azione, nelle assemblee di brigata e di battaglione, che servivano a instaurare una disciplina e una convinzione di tipo nuovo nei reparti armati.

Fu forse la sensazione di essere sempre più potentemente bloccati ed assediati che decise i nazifascisti a controffensive in grande stile nella zona.

Nel marzo 1945 al comando della Decima ad Andrea Cascella subentrava Jean, proveniente dalla Valsesia, e successivamente, proprio nel momento di un trasferimento della brigata dai monti di Arola ad Invorio, anch’io venivo sostituito come commissario dal figlio dell’avvocato Scolari di Torino.

Il 27marzo mi trovavo con Andrea, senza responsabilità di comando, insieme ai reparti della Decima “Rocco” a Invorio. Sotto la pioggia scrosciante, nella discussione che si aprì tra il nuovo comando della brigata e i partigiani, se si dovesse continuare il trasferimento senza fermarsi, secondo il classico principio della guerriglia di movimento,i nuovi responsabili della brigata, contro il parere mio e di Andrea, cedettero di fronte alla stanchezza dei partigiani desiderosi di dormire sotto un tetto a Invorio (la popolazione era sempre pronta a offrirlo) almeno per una notte.

Fino a notte inoltrata io e Andrea fummo paradossalmente impegnati a discutere problemi logistici con Romeo Tredici del CLN, venuto appositamente da Arona, mentre alle prime luci della mattina, qualche ora dopo, la partenza di Romeo Tredici, la Decima veniva a colpo sicuro investita da forti contingenti della Decima Mas e dei paracadutisti di Borgomanero. Caddero parecchi garibaldini, anche se l’ossatura della Decima non poté essere intaccata. Dovetti riprendere le funzioni di commissario e l’opera di riassestamento della brigata dopo il colpo duro.

Alle prime ore del 25 aprile, chiamati dalla popolazione, entrammo in Arona sgombrata e che già si imbandierava. Ai primi nostri arrivati riuscì di tirare le ultime mitragliate contro i reparti della Decima Mas che fuggivano per il lago.

Pare che in quei giorni sorgesse il dubbio nei comandi superiori se dirigere subito le forze partigiane dell’Ossola su Milano o vigilare nella zona. Il fatto è che il colonnello tedesco Stamm, rifiutando ogni condizione di resa, stava scendendo dall’Ossola con una colonna di migliaia di combattenti, con automezzi, carri armati e cannoni, deciso a raggiungere Milano o Novara, disposto a ogni tipo di distruzione. Si avvicinava ad Arona, da dove già si erano allontanati i reparti della “Servadei” e dove io stesso mi trovavo con il solo plotone comando. Mi pervenne un ordine della Divisione, un biglietto di Iso, scritto a matita, del seguente tenore: “Arrestare la marcia di Stamm”, che – come mi si assicurava –era tallonato da tutti i reparti partigiani del Mottarone (a me risulta che solo la “Bariselli” l’aveva attaccato sopra Baveno); sarebbero arrivati rinforzi dal Cusio, condotti da Andrea ed altri provenienti da Intra.

Decisi di portare il mio plotone di circa una ventina di partigiani sulla Rocca che domina l’entrata in Arona. All’arrivo delle avanguardie di Stamm un carro armato saltò sulle nostre mine e i reparti nazifascisti si arrestarono piazzandosi in Meina. Nonostante lo sviluppo di manovre di avvolgimento alle spalle delle alture circostanti e nonostante il cannoneggiamento intenso della nostra posizione, Stamm dovette star fermo un giorno e una notte. Riprese ad avanzare alle prime luci del giorno successivo, facendosi scudo di partigiani e civili presi prigionieri che trascinava con sé. Sulla Rocca erano caduti alcuni nostri garibaldini, ma la resistenza convincerà Stamm della pericolosità e dell’assurdità dei suoi piani d’azione e la colonna si disperderà appena fuori della città.

L’ultimo servizio in armi della Decima “Rocco” fu uno schieramento d’attacco a Gallarate, sulla via di Milano, che servì di rinforzo alle trattative per convincere ala resa i fascisti e gli avieri arroccati in un edificio per un’ultima difesa.

E’ da rilevare che dall’organizzazione della Decima Brigata “Rocco” subito dopo l’arrivo a Milano, sorse una scuola nuova, tecnica e politica, che doveva rappresentare la prima tappa di una decisa azione nella riforma scolastica e culturale per la costruzione della nuova democrazia in Italia: era l’intuizione che i partigiani non dovevano essere smobilitati, ma subito impegnati in compiti nuovi di rinascita democratica. La scuola nacque con il materiale residuo di coperte e viveri della Decima “Rocco”, con l’opera entusiasta di giovani garibaldini come Guido Petter, Vico Tulli, Angelo Peroni, Rolando Menotti, Angelo Teruggi, Angelo Moroni, Michele Sette e altri; con l’assistenza di intellettuali democratici come il professor Luigi Pellegatta, le professoresse Claudia Maffioli, Alba Dell’Acqua, Pasqualina Callegari, i professori Alberto Esposti, Gaetano Kanisza, CesareMusatti, con il consiglio del professor Antonio Banfi, con l’aiuto generoso di operai partigiani come Livio Livi e del dottor Vulich.

L’esempio dei partigiani della “Rocco” per una continuazione della lotta armata nella creazione di istituti di pace e di educazione democratica, suscitò l’iniziativa parallela di altri gruppi di partigiani, intellettuali, operai e contadini a Genova, Sanremo, Torino, Novara, Cremona, Reggio Emilia, Bologna, Molinella, Venezia, Roma. L’ANPI assunse la tutela di tutta questa fioritura di scuole partigiane e io ne coordinai le attività in collaborazione con Claudia Maffioli e Cesare Bensi.

Tali istituti, sorti per ex partigiani ma subito aperti a reduci, mutilati e orfani di caduti, tra mille difficoltà anche politiche, resistettero per anni elavorarono in blocco con statuti democratici, corsi di studio teorico e lavoro pratico produttivo, che anticiparono la realizzazione delle più profonde esigenze che ancora oggi agitano la scuola e la gioventù italiana.